giovedì 6 febbraio 2014

L'interprete ben temperato

Li ascolto, li comparo. Il clavicembalo ben temperato eseguito da Richter e quello di Gould, gli altri - devo essere sincera - non riescono a donarmi lo stesso rapimento. Nella comparazione si annida il mistero della fedeltà e della libertà ad un'opera d'arte. Sembrano due spartiti diversi, si fatica a riconoscere gli stessi segni. Richter coglie un coinvolgimento a tratti oscuro che per chi, come me, è abituata ad ascoltare Bach nella nitidezza gouldiana. Il pianoforte di Richter sembra un organo, quello di Gould un clavicembalo, due suoni che evocano orizzonti di senso assai diversi. Trovo meraviglioso che anche le geometrie bachiane, quell'universo armonico che è una delle creazioni umane più vicine alla perfezione, siano aperte, talmente indeterminate su alcuni punti da lasciare due interpreti geniali liberi di fare parlare i segni sul pentagramma in modo differente.
Cosa scegliere?
Lì è il gusto, l'estetica, la visione filosofica probabilmente. Tentenno, ma poi arrivo al preludio X del primo libro, il mio preferito, quello che riesco ad ascoltare in automobile con una trentina di repeat,fino a quando arrivo a lavoro. Lì scelgo. QUesto preludio mi sembra scritto con note che solo Gould ha letto. Non lo amo suonato da Richter, da Pollini o da Gulda. Solo gusto personale, si intende, non ho l'ardire di fare la musicologa. C'è, e sembra strano a dirsi, una sensualità sommersa in quel preludi che paradossalmente solo i più ascetico dei suoi interpreti ha colto. Trattiene sulla corda l'ascoltatore, solletica i suoi sensi con un suono smorzato, ma sai già che è pronto il mobvimento, che lui lo sta rallentando solo per farti desiderare con più forza quel fuoco. Solo Gould lo interpreta così. Pensavo che quella della sensualità di Gould nel suonare Bach fosse una mia fantasia, una percezione viziata da chissà quali romanzi. Mi sono sorpresa quando ho letto le parole di Rami Bahrami: «Quell'erotismo che manca del tutto nella persona di Gould e nella sua stessa personalità lo ritroviamo, invece, nelle sue interpretazioni, tanto che nei momenti più felici arriviamo a essere coinvolti in un amplesso totale di valori musicali e di amalgamati contrappunti».
È incredibile, ho pensato, con lo stupore di quando una nostra intima percezione ci viene rivelata da qualcun altro e scopriamo che esula dalla nostra soggettività, per divenire realtà.
La musica è suono, ma il mistero è che il suono non proviene solo dai segni; c'è qualcos'altro, Glenn, che hai trovato scritto?

martedì 4 febbraio 2014

Il paradosso dell'Io

«La civiltà (Kultur) è come una grande organizzazione, che indica a chiunque le appartenga il posto in cui può lavorare nello spirito del tutto, in modo che la sua forza possa con pieno diritto misurarsi sul risultato nel senso del tutto. Ma in un’epoca, come la nostra, di non civiltà (Unkultur) le forze si frantumano e la forza del singolo viene consumata da forze contrarie e da resistenze d’attrito,  e non trova espressione nella lunghezza della via percorsa, ma forse solo nel calore che è generato superando tali resistenze. Energia però rimane energia, e anche se lo spettacolo che offre quest’epoca non è quello del divenire di una grande opera di civiltà, nella quale i migliori collaborano allo stesso grande scopo, ma lo spettacolo meno imponente di una moltitudine dove i migliori perseguono solo fini privati»[1]. In queste riflessioni, Wittgenstein rappresenta la distinzione fondamentale tra una società organizzata, nella quale l’individualità si armonizza con l’Ordine sociale e da esso riceve una fisionomia, in una interazione proficua; e una società – quale quella austriaca post-asburgica – in cui l’individuo diviene atomo isolato, privato di finalità esterna e comune.  In epoca pressoché coeva, Sigmund Freud, nella Psicologia della masse e analisi dell’Io, scriveva che dal punto di vista psicologico, la massa è un’unione di singoli che hanno inserito nel loro Super-Io la medesima persona e che si sono identificati fra loro in base a questo elemento comune. Abbiamo già osservato come la figura di Francesco Giuseppe fosse servita da Super-Io per i propri sudditi e come proprio la sua figura paterna, insieme severa e rassicurante, fosse pian piano divenuta l’unico elemento in cui la massa dei governati riconosceva la propria coesione.
Nella fase di crisi[2] che stiamo  analizzando, la fisionomia dell’uomo si modifica ancora prima che nella sua dimensione sociale e politica, nel suo spazio interiore. Lasciamo ancora una volta la parola a Musil e a quella che è realmente «un’incomparabile enciclopedia esistenziale di tutto il suo secolo»[3]: «L’Io perde il senso che ha avuto finora, di un sovrano che compie atti di governo; noi impariamo a comprendere il suo divenire conforme alle leggi, l’influsso del suo ambiente, le varietà della sua costituzione, il suo sparire nei momenti di massima attività, in una parola le norme che regolano la sua formazione e la sua condotta. Pensi: le leggi della personalità, cara cugina! Sarebbe come un’unione corporativa dei serpenti velenosi o una camera di commercio per i ladri! Infatti, poiché le leggi sono la cosa più impersonale che esista al mondo, la personalità non sarà più ben presto che un immaginario punto d’incontro dell’impersonale, e sarà difficile trovare per essa quell’onorevole posizione di cui lei, cara cugina, non può fare a meno…»[4]. Il concetto espresso da Musil, «un immaginario punto d’incontro dell’impersonale», è analogo – sebbene sprovvisto completamente di vis polemica – a quello di Weininger che definiva l’Io di Mach una sala d’aspetto di tutte le sensazioni. Ancor prima della psicoanalisi, è la psicologia machiana a ridefinire  i lineamenti dell’Io nel Novecento. Nell’Analisi delle sensazioni, Mach attaccava la concezione sostanzialistica dell’Io, la res cogitans, e giudicava la persistenza dell’Io un concetto relativo: «La speciosa persistenza dell’Io consiste principalmente solo nella continuità, in una lenta trasformazione. I molti pensieri e disegni di ieri, continuati oggi, che l’ambiente ci ricorda continuamente nella veglia (dacché durante il sonno l’Io è più confuso, e può essere anche duplicato o fors’anche mancare del tutto), le piccole abitudini, che si mantengono incosciamente ed involontariamente per lungo tempo, costituiscono il fondo dell’Io. Difficilmente si può dire che si presentino maggiori varietà nell’Io di individui diversi che non in un solo individuo nel corso della sua vita»[5]. In una fine analisi del rapporto del fisico e dello psichico, Mach si sofferma sull’abitudine – abitudine che è la quintessenza della ratio occidentale – di separare le qualità dal persistente (con lessico tradizionale gli accidenti dalla sostanza); nel caso dell’Io separare le sensazioni, le impressioni, gli stati d’animo da un quid che finga quasi da “contenitore” delle stesse. «L’immagine, che non riusciamo ad afferrare, del persistente, che non si trasforma in modo sensibile quando si perda qualcheduno degli elementi, sembra sussistere di per sé, e da poi che si può togliere ogni elemento parziale, singolarmente, senza che per questo l’immagine cessi dal rappresentare il tipo generico, si crede che, anche togliendo tutti gli elementi, essa rimanga sempre un qualche cosa. Così in modo naturale si forma il pensiero filosofico, che da principio s’impone, ma di poi si riconosce mostruoso, di un fatto in sé (Ding an sich), vario, irriconoscibile nella usa manifestazione»[6]. L’idea della sostanzialità – fisica e psichica – appare a Mach mostruosa, perché frutto di un errore prospettico, di un pregiudizio metafisico.
L’Io è soltanto un «mezzo provvisorio» per orientarci momentaneamente nel mondo a scopo assolutamente pratico. L’Io è in realtà un complesso, senza confini netti e definibili. Il punto fondamentale per comprendere l’analisi machiana è riassumibile nella frase: l’io non ha sensazioni, l’io è sensazioni. Non basta, infatti, ammettere una maggiore fluidità dell’Io oppure – come fa Freud – accostare all’Io emerso un Io ancestrale e oscuro, illogico. Ciò non è il mutamento di paradigma operato da Mach. Tale cambiamento emerge, invece, nel momento in cui abbandoniamo la domanda: «Chi sente le sensazioni?». Fintanto che parliamo di un Chi «sottostiamo alla vecchia abitudine di aggruppare ogni elemento (sensazione) ad un complesso non analizzato, ricadendo, senza avvedercene, al vecchio e ristretto punto di vista»[7].
Mach proclama l’insalvabilità[8] dell’io, ridotto ad aggregato di relazioni psichiche la cui unità risulta meramente economica: è un io privo di centro, e forse ha ragione Claudio Magris quando scrive che quello di Mach più che un uomo senza qualità risulta essere delle qualità senza uomo, ossia proprietà senza sostanza. «L’unità dell’uomo si sfaccetta in una fenomenologia collettiva, si dissolve nel magma sociale e si disgrega nei singoli momenti e nelle singoli pulsioni che lo costituiscono, nell’”anarchia degli atomi”»[9].
Il discorso di Mach è, a mio avviso, ancor più radicale di quello di Freud per due ordini di motivi: il primo, secondo quanto già emerso, è la desostanzializzazione dell’Io, contro invece una stratificazione della sostanza; il secondo punto è la messa in crisi del paradigma scientifico. Freud, non mette in discussione lo statuto delle scienze “esatte”, mira anzi a fare entrare la propria scienza nel novero di quelle riconosciute dalla cultura positivista. Questo, come vedremo, è uno dei motivi di più aspra critica di Wittgenstein alla psicoanalisi. Mach, invece, non vuole creare una psicologia sui parametri delle scienze naturali, ma ribalta quegli stessi parametri, nel momento in cui abbatte la presunta dicotomia tra il fisico e lo psichico, tra il fatto e il percepito. «Non sono i corpi che generano le sensazioni – scrive – ma sono i complessi di elementi (complessi di sensazioni) che formano i corpi. Il fisico considera “corpi” il persistente, il reale, e, all’opposto, considera “elementi”  le loro manifestazioni passeggere, transitorie; ma egli non considera che tutti i “corpi” non sono che simboli del pensiero per indicare complessi di elementi (complessi di sensazioni)»[10]. Mach azzera il dualismo res cogitans/res extensa, frutto dell’irrigidimento del flusso ininterrotto di elementi che costituisce il reale. Spaccando questa indistinta massa di elementi in due poli contrapposti non si può sfuggire al dilemma: «o contrapporre un mondo di natura inconoscibile a lui stesso (il che sarebbe inutile e senza scopo), o considerare tutto il mondo, cioè l’Io di tutti gli altri uomini, come compreso nel nostro Io (al che difficilmente si può pensare sul serio)»[11]. È lo stesso dilemma in cui si trovo invischiato Wittgenstein, ai tempi del Tractatus. In un’annotazione del 1916, Wittgenstein definiva l’Io e il Mondo, due divinità che hanno un rapporto talmente stretto che il soggetto esiste solo in quanto limite del mondo e il mondo solo in quanto rappresentazione del soggetto. Il solipsismo wittgensteiniano sarà, però, di specie diversa rispetto a una delle due alternative profilate da Mach. Si è parlato giustamente di “solipsismo senza soggetto”[12] . Wittgenstein scarta la prima alternativa di cui parlava Mach, quella del dualismo, perché nella sua idea di rappresentazione il mondo e l’Io si identificano. Al pari del Törless musiliano, l’Io del Tractatus si identifica con la realtà percepita come un Tutto indistinto ed è proprio questa percezione la chiave del Mistico; in questa esperienza estatica, che è profondamente viennese (ne parlano Mach, Hofmannstahl, Musil), il soggetto perde la sua fisionomia e il mondo la sua fissità. Mach racconta in tal modo l’esperienza biografica che sta alla base della sua concezione[13]: «Io provai un godimento indicibile quando, giovane di circa 15 anni, fra i libri di mio padre ritrovai i Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik del Kant. Questo scritto mi ha fatto allora un’impressione, che non ho più provato di poi in altre letture filosofiche Due o tre anni di poi provai improvvisamente quanto sia inutile il così detto “fatto in sé” (Ding an sich). In un giorno sereno d’estate, all’aperto, una volta mi s’appresentò il mondo col mio Io come una massa complessa di sensazioni, congiunta nell’Io soltanto più fortemente, e, benché più tardi si sia aggiunta anche la riflessione, quello fu il momento definitivo per tuta la mia concezione. Del resto, io dovetti combattere una lunga e grave lotta prima di poter affermare tale concetto anche nel mio campo speciale»[14]. Tale “lunga e grave lotta, lo porterà in Conoscenza ed errore, ad affermare: «Se ora definisco la totalità del mio psichico - incluse le sensazioni -il mio Io nel senso più ampio […] posso ben dire, in questo senso, che il mio Io ha incluso in sé, come sensazione e rappresentazione, il mondo  […]. Tale posizione solipsistica fa si, apparentemente, che il mondo come ente autonomo scompaia, in quanto cancella la contrapposizione Io-mondo»[15]. Sono parole che hanno fortemente ispirato le proposizioni del Tractatus, in cui Wittgenstein parla del solipsismo. Il mondo è il mio mondo, ma questa appartenenza rimane relegata nello spazio dell’indicibilità[16]. «L’Io entra nella filosofia perciò che “il mondo è il mio mondo”»[17], Wittgenstein non riconosce altro spazio per l’Io. Il soggetto non eccede rispetto al mondo, i suoi limiti coincidono con quelli del mondo e in questo vi è un’assonanza col discorso machiano di riduzione a monismo della tradizionale frattura mente/realtà.  Ecco perché «il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L’Io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà ad essa coordinata»[18]. La posizione wittgensteiniana, ai tempi del Tractatus logico-philosophicus, resta ancora in bilico tra la concezione humiana/machiana secondo la quale l’io è solo un fascio di sensazioni, e quella kantiana che pensava l’identità come proprietà trascendentale. Era un tentennare, nonostante tutto, fra un dualismo, che in Kant si riproponeva nell’opposizione fenomeno-noumeno, e il monismo affermato da Mach che concepiva «l’universo come una massa unica e i vari Io quali punti, nei quali tale massa assume maggior consistenza»[19]. Wittgenstein salterà il guado nella seconda fase della propria filosofia, in cui il solipsismo diverrà costruttivismo, visione antropologica e socio-culturale. L’Io diverrà Noi. La volontà di depurare il proprio pensiero di qualsiasi residuo di cartesianesimo e mentalismo (entrambe concezioni psicologiste del doppio) indurrà Wittgenstein a concentrarsi nello studio della psicologia e a dedicare ad essa una serie di scritti negli anni che vanno dal 1946 al 1949. Wittgenstein è stato attento lettore di due psicologi: William James e il gestaltista Wolfgang Köhler, come testimoniano le numerose citazioni contenute nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia[20], oltre che conoscitore - anche personalmente, tramite la sorella Margaret - di Sigmund Freud. Köhler, che era anche una lettura di Musil, interessava a Wittgenstein per la tematica del «vedere come», del riconoscere aspetti delle cose in connessione delle relazioni interne fra diversi oggetti ed eventi. Tale interesse nei confronti della psicologia, è dettato dalla critica alla concezione mentalistica e alla ridefinizione del soggetto.  La liberazione dal solipsismo del Tractatus avviene tramite la critica all’idea di una dicotomia tra lo schema concettuale, che “costruisce” interiormente la percezione esterna, e l’esperienza. L’idea di una scissione tra un dentro e un fuori. La psicologia, per Wittgenstein, non è lo studio di fenomeni invisibili, che accadono dentro un luogo recondito, ma è l’analisi delle espressioni linguistiche. «In questo senso è illuminante l’analisi di Wittgenstein dell’espressione “aver paura”, che non consiste nel vivere un processo occulto e poi descriverlo esteriormente attraverso le parole – secondo una logica del doppio o della duplicazione propria del mentalismo […] bensì in quell’atto linguistico intransitivo e immanente per il quale, secondo il filosofo austriaco, aver paura è recitare la paura»[21]. Il secondo Wittgenstein porta il soggetto “allo scoperto”, nel senso che crede che la soggettività sia da sempre esposta nei nostri atti linguistici, nei nostri comportamenti, nella nostra prassi. Non esiste una sostanza nascosta, che funge da collante per le nostre azioni, pensieri, parole.  Da questo punto di vista, Wittgenstein è risolutamente anti-freudiano, in quanto si oppone all’idea di una dimensione profonda dell’io: «Per scendere in profondità non occorre andare lontano; anzi, non occorre assolutamente che tu abbandoni per questo l’ambiente circostante che ti è più vicino e abituale»[22].
Le Ricerche filosofiche seguono realmente quel cammino che Roberta De Monticelli ha definito «fra Agostino e il deserto: fra l’inventore di tutte le categorie della vita interiore e la confusa povertà della “psicologia come scienza empirica”»[23]. Le Ricerche, infatti, si aprono con una citazione dalle Confessioni di Agostino[24] e si concludono con una amara riflessione sullo stato degli studi psicologici: «La confusione e la sterilità della psicologia non si possono spiegare dicendo che è una “scienza giovane”; il suo stato non si può paragonare, ad esempio, con quello della fisica ai suoi primordi. […]. In altre parole, in psicologia sussistono metodi sperimentali e confusione concettuale. […] L’esistenza di metodi sperimentali ci fa credere di possedere i mezzi per risolvere i problemi che ci assillano; per quanto problema e metodi non abbiano nulla da spartire»[25].
La psicologia, nel suo tenace sogno di agganciarsi all’esattezza delle scienze naturali, implementa metodi sperimentali e parametri “oggettivi” di osservazione, mentre non si accorge – secondo Wittgenstein – che ciò che la induce all’errore non sono i metodi di ricerca ma il campo di ricerca. La sua confusione, quindi, non è imputabile (come credevano gli psicologi contemporanei di Wittgenstein) all’inesperienza di una scienza neonata e alla necessità di affinare i propri strumenti, ma al fraintendimento di cosa siano i «concetti della psicologia». Eccone un esempio: «Allora che cos’è che diciamo di conoscere? E in che misura io conosco i miei pensieri? Di una persona non si dice forse che conosce qualcosa quando è in grado di descriverla correttamente? E si può dire questo dei propri pensieri? Chi vuole chiamare le parole “descrizione” del pensiero, invece che “espressione” del pensiero, si chieda come si impara a descrivere un tavolo e come a descrivere i propri pensieri. Questo vuol dire soltanto: presti attenzione a come si giudica vera o falsa la descrizione di un tavolo e a come si giudica quella dei pensieri, tenendo sotto osservazione questi giochi linguistici in tutte le situazioni in cui si presentano»[26].  La domanda, che è la cifra del metodo del secondo Wittgenstein, è se sia legittimo parlare di “descrizione” piuttosto che di “espressione” dei pensieri. La descrizione rimanda all’idea che i pensieri siano entità presenti in un luogo arcano del nostro Io e che la scienza venga a rischiarare e a descrivere tali entità.  È possibile conoscere i propri pensieri allo stesso modo in cui la chimica conosce i propri elementi, la biologia le cellule, ecc.. ecc..?
Qui si entra nel terreno che accomuna, con le differenze che faremo emergere, l’analisi di Ludwig Wittgenstein a quella di altri intellettuali viennesi, in primis Freud. Questo terreno comune è la messa in crisi dell’idea filosofica di autocoscienza, di una razionalità che sia completamente limpida a se stessa, nota in ogni suo dispiegarsi. È molto interessante, a tal proposito, l’inserimento che fa Aldo Gargani  di tale messa in crisi dell’autocoscienza nell’ambito dei teoremi di limitazione: «Gran parte delle forme più significative della cultura scientifica, matematica, logica, filosofica e letteraria contemporanea consiste di una serie di teoremi di limitazione. Questi teoremi di limitazione  hanno la funzione di provare una qualche impossibilità (per esempio, i teoremi di limitazione di K. Gödel, il principio di indeterminazione di Heisenberg, la distribuzione quantica dell’energia e simili). Attraverso tali impossibilità si mostra l’impraticabilità delle descrizioni di sistemi completi, integrati che sono state proprie della tradizione scientifica e filosofica classica. In casi diversi, che si riferiscono a classi di fenomeni assai differenti tra loro, si mostra che non possiamo provare la coerenza di un sistema logico-matematico con gli strumenti e le risorse formali del sistema in questione; oppure che non possiamo definire contemporaneamente con egual precisione la coordinata di impulso e la coordinata di posizione di una particella atomica. Ma si esperisce anche, come avviene in una umida sera di novembre a Vienna nell’Uomo senza qualità, l’impossibilità da parte dello spirito, dell’intelligenza di auto comprendersi, di autoafferrarsi. Di qui la morale che ne trae il suo protagonista al quale sembra che l’intelligenza stessa non sia intelligente (daß der Geist selbst keine Geist habe). Ciò che risulta messo in discussione attraverso queste limitazioni e queste impossibilità è la concezione – propria della tradizione razionalistica classica – che si estrinsecava in una descrizione integrata e completa condotta dal punto di vista di un osservatore che, come l’occhio di Dio, rimane al di fuori, non è parte della situazione che descrive. Ciò che dunque risulta fatalmente messo in discussione è la presenza di un osservatore neutrale che sarebbe il soggetto di una visione panottica della realtà»[27].
Viene meno, innanzitutto, la figura di Uomo costruita attorno alla solidità delcogito cartesiano. Freud diviene “terapeuta” non solo del singolo individuo, ma organizza un discorso clinico sul nostro sapere: «Interrogata dalla psicoanalisi, la cultura classica si configura come una formazione difensiva di fronte al terrore del nulla, alla paura della morte che ci attanaglia. Pensare l’uomo al centro del mondo ed il mondo a misura dell’uomo svolge una funzione consolatoria ed autogratificante»[28]. Freud applica anche una funzione epistemologica alla psicoanalisi, nel momento in cui legge la storia della scienza  come una serie di ferite al simulacro ideale che l’uomo si era costruito di se stesso[29].  Copernico, Darwin, e infine se stesso, vengono letti da Freud come le tre ferite narcisistiche che la scienza ha inferto all’umanità. L’uomo, dapprima spodestato da centro e termine ad quem dell’universo, poi detronizzato dal ruolo adamitico di rapporto preferenziale con Dio, infine perde la padronanza perfino di se stesso. Quest’ultima perdita è valso a Freud il famoso epiteto di “maestro del sospetto”, datogli da Ricoeur: «Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono; ma non dubita che la coscienza non sia come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza»[30].
La psicoanalisi rappresenta per la filosofia ciò che il principio di indeterminazione ha rappresentato per la fisica. Freud comprende ovviamente la problematicità di una scienza che ha l’Io come soggetto conoscente ed oggetto da conoscere: «Nostro desiderio è fare oggetto di questa indagine l’Io, il nostro Io più autentico; ma è possibile? L?io è il soggetto per eccellenza, come può diventare oggetto? Ora, non vi è alcun dubbio che questo è possibile: l’Io può prendere come oggetto sé stesso, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così facendo, una parte dell’Io si contrappone alla restante. L’Io è dunque scindibile; si scompone nel corso di parecchie sue funzioni, almeno transitoriamente. Le parti possono successivamente riunirsi»[31]. La lezione trentunesima dell’Introduzione alla psicoanalisi si intitola La scomposizione della personalità psichica e il dilemma, non freudiano a dire il vero,  resterà se e in quale misura questa scomposizione sia risanabile e quanto l’Io riesca a divenire oggetto della propria coscienza. In questa scomposizione di se stesso, l’Io fa delle scoperte poco edificanti: scopre la moralità «che si presume ci sia stata conferita da Dio e sia radicata in noi tanto profondamente, manifestarsi come un fenomeno periodico»[32]. Anche Freud partecipa alla messa al rogo di Kant, quando riecheggiando il noto detto della Critica della ragion pratica, scrive: «Seguendo il noto detto di Kant, che accosta la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe volgersi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono magnifiche, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e trascurato, poiché la grande maggioranza degli uomini ne ha ricevuto soltanto una quantità modesta o addirittura talmente piccola che non vale la pena di parlarne»[33]. Andando avanti con l’esplorazione di se stesso, l’Io scopre il suo «ospite più inquietante»: l’Es, la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità. Tale parte «si lascia descrivere solo per contrapposizione all’Io. All’Es ci avviciniamo con paragoni: lo chiamiamo un caos, un calderone di eccitamenti ribollenti»[34]. Come conoscere questo lato oscuro? Questo è sicuramente il problema più filosofico scatenato dalla psicoanalisi di Freud, perché abbiamo l’incontro del logos con il contrario del logos; la ratio occidentale vede in faccia quell’irrazionale che tenacemente e “follemente” ha cercato di negare (potremmo chiamarlo con Freud il ritorno del rimosso). «Le leggi del pensiero logico non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non il principio di contraddizione. Impulsi contrari sussistono uno accanto all’altro, senza annullarsi o diminuirsi a vicenda»[35]. Luogo anti-aristotelico e anti-kantiano per antonomasia, l’Es vive senza logica e senza morale, pronto sadicamente a prendersi non appena possibile la rivincita sull’Io che lo tiene segregato. Si può leggere Auto da fè di Canetti come una splendida metafora della velleità della ragione di espugnare da sé qualsiasi elemento irrazionale, fino a divenire delirio e, da ultimo, a bruciare. Il protagonista, Peter Kien, è un sinologo dottissimo che prova amore solo per i propri libri; li amava così tanto da passeggiare con la sua borsa piena di volumi stretta al proprio corpo, in modo da poterne sentire  il contatto. La vita metodica di Kien viene stravolta dal matrimonio con Therese, donna ignorante e costantemente preoccupata dalla materialità dell’esistenza. Therese rappresenta il mondo della vita che la ragione occidentale ha spinto ai margini, negato e obliato, e che ora irrompe caoticamente nel silente regno del pensiero. Therese, che butta Kien fuori dalla sua adorata biblioteca e che lo costringe ad un delirate confronto col mondo esterno ad essa, è il ritorno del rimosso; l’Es che chiede il conto ad un Io che per millenni si è immaginato despota.
La teoria freudiana diviene anche teoria sociologica, nel momento in cui la civiltà diviene ostacolo al soddisfacimento pulsionale dell’Es: «Noi riteniamo che la civiltà si sia formata sotto l’urgenza delle necessità vitali a spese del soddisfacimento delle pulsioni, e che essa venga in gran parte continuamente ricreata ex novo, quando il singolo, che fa il suo primo ingresso nella comunità umana, ripete il sacrificio del soddisfacimento delle pulsioni a favore della società. Tra le forze pulsionali così impiegate, quelle degli impulsi sessuali hanno un ruolo importante; in questo processo esse vengono sublimate, ossia distolte dalle loro mete sessuali e rivolte a mete socialmente superiori, non più sessuali. Questa costruzione però è labile, e le pulsioni sessuali sono domate a fatica, in ciascun individuo che debba associarsi all’opera di civilizzazione sussiste il pericolo che le sue pulsioni sessuali si rifiutino di essere impiegate in questo modo. La società crede che non vi sia minaccia più forte alla sua civiltà di quella che deriverebbe dalla liberazione delle pulsioni sessuali e dal loro ritorno alle mete originarie. La società non ama quindi che le si rammenti questa instabile componente del suo fondamento, non ha alcun interesse che venga riconosciuta la forza delle pulsioni sessuali e resa esplicita l’importanza della vita sessuale per il singolo; anzi, con intento educativo, ha seguito la via di distogliere l’attenzione da tutto questo campo»[36].
Ritorniamo alla Vienna già descritta. Negli anni precedenti il primo conflitto mondiale, Vienna era un nome unico che in realtà celava  una multiformità, dettata dalle undici etnie che componevano l’impero e i conflitti di classe. La città ospitava l’antisemitismo di Weininger e il sionismo di Herzl, l’estetismo dei giovani aristocratici e le rivendicazioni salariali capeggiate da Viktor Adler, la condanna del femminile di Weininger e l’identificazione della donna con la sessualità e l’irrazionalità. Queste spinte, queste tensioni sono lo sfondo comune della nascita del pensiero wittgensteiniano e della psicoanalisi, come riconosce lo stesso Freud, quando afferma che la psicoanalisi: «non è balzata fuori dalla roccia, né è caduta dal cielo; essa si allaccia  a concezioni più antiche che porta avanti, si diparte dalle sollecitazioni che sviluppa ed elabora. Perciò nel fare la sua storia bisogna cominciare con la descrizione degli influssi che furono determinanti per la sua origine, né si possono dimenticare i tempi e le circostanze che hanno preceduto il suo avvento»[37].
La visione pessimistica della storia e l’idea di decadenza della civiltà occidentale, permeano le riflessioni degli intellettuali viennesi e accomunano il disagio della civiltà avvertito da Freud e l’analisi wittgensteiniana, mutuata da Spengler, della distinzione tra Kultur e Zivilisation. Ciò che, nell’ottica evoluzionistica dell’Ottocento, era considerato enfaticamente un valore: il progresso, viene drasticamente messo in discussione. L’esito drammatico del primo conflitto mondiale aveva condotto Freud ad ammettere che, accanto alle epulsioni libidiche, nell’uomo si trovasse una forza cieca, aggressiva, volta non all’Eros ma al ThanatosIl disagio della civiltà[38] è l’opera in cui, almeno parzialmente, Freud si trova costretto a rinunciare al riduzionismo basato sul monismo della libido e a cercare almeno un’altra fonte di spiegazione del comportamento umano. È proprio il riduzionismo freudiano a non piacere a Wittgenstein e a creare una netta spaccatura tra la sua idea di razionalità e quella del padre della psicoanalisi. Il rapporto tra Wittgenstein e Freud non è facilmente  etichettabile con la definizione di “affinità” o  “opposizione”[39]; abbiamo cercato fin qui di fare emergere il terreno comune da cui le due visioni del mondo – quella freudiana e quella wittgensteiniana – hanno germogliato. Ciò su cui i sentieri si biforcano è l’idea di scienza.
Freud è ancora succube, agli occhi di Wittgenstein, del meccanicismo della fisica classica[40]; la psicoanalisi è una “meccanica dello spirito” perché è alla ricerca della causa del sognare, della causa delle nevrosi, dei lapsus, ecc…Freud è assolutamente certo che nulla di quanto accade nel comportamento umano sia casuale: tutto ha una causa. La scienza che Freud vuole fondare è una scienza esplicativa, non meramente descrittiva, come quella wittgensteiniana. Non solo il ricondurre ogni comportamento ad un’unica causa è riduzionista, ma anche l’idea di una traduzione (dal linguaggio dell’inconscio a quello della razionalità) sottintende un misconoscimento del costruttivismo della pratica analitica. L’ideale descrittivo di Wittgenstein è il seguente: «Credo che l’impresa di dare una spiegazione sia sbagliata già per il semplice motivo che basta comporre correttamente quel che si sa, senza aggiungervi altro, perché subito si produca da sé quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione […] Qui si può solo descrivere e dire: così è la vita umana»[41]. L’ideale esplicativo della psicoanalisi, invece, si fonda sullo spostamento dal piano fenomenologico – l’unico esistente, secondo Wittgenstein – al piano occulto dell’interiorità. Abbiamo già evidenziato che la critica al mito dell’interiorità è un asse portante del pensiero del secondo Wittgenstein. Ai suoi occhi è paradossale parlare di fenomeni inconsci: ciò che non si vede non è fenomeno; anche l’idea di «pensiero inconscio» gli appare un ossimoro per via della sua identificazione del pensiero con il linguaggio, con l’espressione. L’esistenza di due linguaggi, nella psicoanalisi, è ovviamente il punto chiave del simbolismo elaborato da Freud. Che, però, non ha mai accettato l’idea di avere “inventato” il simbolismo dell’inconscio; la mancata presa di consapevolezza di essere “costruttivismo”, reca alla psicoanalisi un cattivo servizio, agli occhi di Wittgenstein. La psicoanalisi non interpreta, non disvela, ma costruisce il senso del proprio oggetto di scienza. La psicoanalisi non è una scienza, nel senso positivista del termine, ma è un insieme di metafore che ha la stessa struttura dei miti che pretende di razionalizzare. Freud, nell’Introduzione alla psicoanalisi[42], si discosta dall’idea che la scienza non abbia necessità di concordanza col mondo esterno, affermando che questo è un anarchismo scientifico. La posizione wittgensteiniana, da questo punto di vista, è di anarchismo, nel senso che qualsiasi scienza non ha criteri di convalida che riposano al di fuori di essa.  Nella lezione trentacinquesima dell’Introduzione alla psicoanalisi, Freud mette in evidenza la sua appartenenza, nonostante tutto, all’idea tradizionale di scienza e di progresso della medesima: «La psicoanalisi, a mio parere, è incapace di crearsi una sua particolare Weltanschauung. Essa non ne ha bisogno, è parte della scienza e può aderire alla Weltanschauung scientifica»[43]. Analogamente, egli imputa il fatto che la scienza non abbia ancora risolto tutti i problemi relativi agli enigmi dell’universo, alla giovane età della scienza: «Ammetterete che i rimproveri mossi alla scienza per non aver ancora risolto l’enigma dell’universo sono esagerati in una maniera che è insieme ingiusta e astiosa; davvero, non c’è stato neanche il tempo perché la scienza raggiungesse simili traguardi»[44]. L’ipotesi che sta alla base di queste mie riflessioni è che la psicoanalisi, in realtà, non sia stata quel ponte capace di fare attraversare alla generazione dei viennesi il guado da una crisi della scienza e dell’io a una nuova visione scientifica, o meglio – per usare le parole freudiane – a una nuova Weltanschauung. Scienza della crisi, quindi, più che scienza di ricomposizione e superamento della crisi: viene in mente il motto di Kraus: «la psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia»[45].
È proprio la riflessione sul linguaggio, e la ricerca di una nuova lingua capace di restituire non il mondo cristallino della scienza ma quello informe della vita, che tirerà fuori il pensiero della finis Austriae fuori dall’impasse: dal silenzio del Tractatus ai giochi linguistici delle Ricerche filosofiche, dalle parole che «ammuffiscono come funghi» di Lord Chandos all’ironia di Musil.

[1] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, tr. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1980, pp. 24-25.
[2] Si utilizza qui il termine crisi non in senso negativo, ma come momento in cui, accanto alla disgregazione di un vecchio ordine, lampeggiano i segni di un nuovo ordinamento. Se ciò non accadde politicamente, in quanto l’Austria non passerà in poco tempo da potenza egemonica a terra assoggettata, dopo l’Anschluß, si verificò, invece, nell’arte, nella fisica, nella filosofia, nella psicologia e  nella letteratura.
[3] La definizione è di Milan Kundera, I testamenti traditi, tr. di E. Marchi, Adelphi, Milano1994, passim.
[4] R. Musil, L’uomo senza qualità, cit., p. 460.
[5] Ivi, p. 4.
[6] Ivi, p. 7.
[7] Ivi, p. 31.
[8] Cfr. Ivi, p. 29.
[9] C. Magris, L’anello di Clarisse, cit., p. 215.
[10] E. Mach, Analisi delle sensazioni, cit., p. 35.
[11] Ivi, p. 34.
[12] La definizione è di V. Beloharadsky, Interpretazioni italiane di Wittgenstein, Marzorati, Milano 1971, p. 42.  Su tali tematiche si cfr. J. Hintikka, On Wittgenstein’s Solipsismus, in «Mind» LXVII (1958), pp. 88-91; B. Mc Guinness, Wittgenstein e l’idealismo, in M. Andronico, D. Marconi, C. Penco (a cura di), Capire Wittgenstein, cit., pp.275-296; L. Perissinotto, Wittgenstein. Linguaggio soggetto mondo, Sancisci, Abano Terme 1985; D. Donato, I percorsi di Wittgenstein, cit., cap. III.
[13] E questo appare già rivoluzionario in quanto lega una teoria fisica al vissuto di chi l’ha concepita, e non ad una verità oggettiva.
[14] E. Mach, Analisi delle sensazioni, cit., p. 36.
[15] E. Mach, Conoscenza ed errore, tr. di  S. Barbera, Einaudi, Torino 1982, pagg. 10-11.
[16] Sulla riflessione dell’inadeguatezza del linguaggio, torneremo nel paragrafo successivo.
[17]  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 5.641.
[18] Ivi, 5.64.
[19] O. Weininger, Sesso e carattere, tr. di G. Fenoglio, Feltrinelli-Bocca, Milano 1978, p.166.
[20] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, a cura di R. De Monticelli, Adelphi, Milano 1990.
[21] A. Gargani, La filosofia della psicologia di Ludwig Wittgenstein, in L. Wittgenstein, Ultimi scritti 1948-1951. La filosofia della psicologia, tr. di A. G. Gargani e B. Agnese, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. XIX.
[22] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., p. 119.
[23] R. De Monticelli, Il linguaggio e la memoria, in Ivi, p. 511.
[24] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, p. 9.
[25] Ivi, p. 301.
[26] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., p. 175.
[27] A. G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 84-85. Sulla psicoanalisi come crisi dell’umanesimo classico, si leggano anche A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979; P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, tr. di E. Renzi ,Il Saggiatore, Milano 1966. Per un approccio generale alla rivoluzione psicoanalitica, cfr. C. Musatti, Trattato di psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1949; S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano 1990; E. Jones, La psicologia di Freud, tr. di V. Giordano e P. M. Ricci, Newton Compton, Roma 1973; M. Robert, La rivoluzione psicoanalitica, La vita e l’opera di Freud, tr. di E. Fadini, Boringhieri, Torino 1967.
[28] S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi, cit., p. 9.
[29] Cfr. S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, in Opere, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 1976, vol. VIII, pp. 657 e sgg.
[30] P. Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, cit., p. 47.
[31] Cfr. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, tr. di M. Tonin Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1978, p. 467.
[32] Ivi, p. 469.
[33] Ibidem.
[34] Ivi, p. 479.
[35] Ivi, p. 480.
[36] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., pp. 23-24.
[37] S. Freud, Breve compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol.  IX, p. 587.
[38] S. Freud, Il disagio della civiltà, in Opere, cit., vol. X,  pp.557-630.
[39] Si cfr. J. Bouveresse, Filosofia, metodologia e pseudoscienza. Wittgenstein lettore di Freud, tr. di  A.M. Rabbiosi, Einaudi, Torino 1997; A. Gargani, Psicoanalisi e filosofia del linguaggio, in Il coraggio di essere, cit., pp. 237-252; Id. Freud, Wittgenstein, Musil, Shakespeare & co., Brescia 1982; Id. Freud e Wittgenstein, in Lo stupore e il caso, cit., pp. 117-136; B. Mc Guinness, Freud e Wittgenstein, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 9, 1979, pp. 409-424; Id, Wittgenstein e Freud, in Aa. Vv., Ludwig Wittgenstein e la cultura contemporanea, Atti del convegno internazionale di Studi, Biblioteca Classense di Ravenna, 26-27 aprile 1982, Longo, Ravenna 1983, pp. 23-38.
[40] Per questa e altre critiche al metodo psicoanalitico si legga L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, tr. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2001.
[41] L. Wittgenstein, Note al ramo d’oro di Frazer, tr. di S. De Waal, Adelphi, Milano 200, p. 19.
[42] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., lezione 35.
[43] Ivi, p. 574.
[44] Ivi, p. 566.
[45] K. Kraus, Detti e contraddetti, a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano 1998, p. 300.

lunedì 3 febbraio 2014

da L'esattezza dell'anima

Giambattista Vico la chiama eterogenesi dei fini. Camilla doveva pur avergliela citata, qualche volta. La Storia ha dei fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; Marco aveva detto quella frase con il solo scopo di separare Tiziano e Giulia, ma creò con la propria azione il legame da cui finora Tiziano era abilmente evaso. Rimasto solo nella sua camera d’albergo, De Monticelli fece il suo errore e lo fece con una tale consapevolezza che si trattava si un errore, che quando mesi dopo si era ritrovato nuovamente solo in una camera d’albergo, si era rivisto lì, a Vienna, con la cornetta del telefono in mano e si era detto: «Ben mi sta». Il problema, e ciò De Monticelli lo aveva sempre sospettato, non è che gli uomini non sanno quale sia la cosa giusta, ma è che scelgono con passione quella scorretta, determinati a sbagliare con una forza viscerale. Cercò il numero di telefono, che guarda caso si trovava scritto a matita sulla prima pagina di Auto da fè di Canetti e la chiamò.
«Non sono un codardo e se non ti ho detto la mia verità di quella notte è perché le tue verità, quelle che mi hai detto a letto, le avevi già dette ad altri cento uomini».
Giulia non poteva mai immaginarsi che essere presa per una prostituta nel cuore della notte potesse darle tanta intima gioia. Era caduto, finalmente. Cercò rapidamente nel suo repertorio sconfinato di frasi spiacevoli, quella che poteva farlo imbestialire come un toro alla corrida.
«Non sei felice? Eri terrorizzato da una fanciulla che voleva sposarti e scopri invece che puoi divertirti senza problemi». Era perfida nella sua furbizia, era la figlia di Mauro Roberti, anche se Tiziano la pensava sempre come la figlia di Virginia. E poi la strada dell’errore è sempre in discesa e lui aveva iniziato a rotolare:
«Non mi hanno mai divertito le cose che divertono tutti».
Giulia sorvolò sul termine “cosa” perché quella notte non doveva essere lei ad arrabbiarsi, sentiva una potenza dentro che non aveva mai provato da quando lo conosceva. Era su un trono adesso, era alla scacchiera e i pezzi li stava mangiando lei, aspettava solo il momento giusto per lo scacco matto, ma ancora doveva lavorarselo.
«Peccato, pensavo di venire a farti visita uno di questi giorni» gli sussurrò.
«Dovrai accontentarti del pianista invidioso».
«Potrei anche cambiare strumento, un violoncellista, ad esempio».
Di nuovo il sangue alla testa, ma dissimulò: «Non ho dubbi che ne saresti capace, ma non lui». Giulia sentiva il desiderio di lui, attraverso il muto respiro del telefono. In quel momento non avrebbe giocato come a Berlino, ne era certa.
«Non è un codardo lui, cosa scommetti che lo farebbe?».
Tiziano pensò che era orribile, come il padre scommetteva sulle cose più sacre della vita, quale un’amicizia ventennale, solo per divertirsi, per poter dire trionfante che aveva ragione: che nessuno aveva dei valori in questo mondo e che tutti erano pronti a tradire.
«Il tuo problema è che non sai cosa sia l’amicizia – le disse – la fiducia totale in un’altra persona. Pensi che siano tutti squallidi come te».
Giulia deglutì, doveva rimanere calma. Con o senza fiducia nell’amico del cuore, si disse,  Tiziano stava impazzendo al solo pensiero. «Perché mi hai chiamato allora?».
E perché? Tiziano avrebbe voluto dirle con Wittgenstein che la logica ci spiega il come ma mai il perché e lui il perché non lo sapeva.
«Perché non lo ammetti che daresti tutto per avermi lì di fronte a te, con la camicia che avevo a Berlino?» recupero la voce più carezzevole.
«Perché non è vero».
Giulia rise, prima era rimasto in silenzio, ora aveva mentito. Poteva giocare l’ultima mossa:
«E comunque non hai capito niente di me, se pensi che andrei con Johannes per farti dispetto – era irritata veramente – sei tu squallido se pensi che la felicità che ho provato con te l’altra notte, l’ho già vissuta con altre persone. Non hai capito niente di quello che t’ho detto, perché pur di non vedere l’unica verità, metti la testa sotto la sabbia».
Cambiava così rapidamente le sue verità, che Tiziano  aveva tre o quattro immagini di lei, tutte insieme: quella della camicia a Berlino, sicuramente, ma poi c’era quella delle passeggiate serali per Roma, quando ridevano citando Cèline, quella della ragazza che piangeva di spalle per non farsi vedere, alla ricerca disperata delle sue mutandine.
«Non c’è nessuna verità fra di noi, sei una bugiarda e basta».
«E tu sei spaventato perché ti piaccio così tanto che la prima volta mi hai violentato» era un colpo basso, lo sapeva, ma questa volta doveva vincere a qualsiasi costo. Doveva implorarla di raggiungerlo.
«Un’altra bugia, lo sai che non è vero» lo colpì come un pugno quel ricordo e si chiese come potesse conoscere a perfezione l’arte di ferire. Era la peggiore cosa che avrebbe potuto dirgli, il suo buco nero.
«Non ti saresti mai fermato e lo sai. Tu sei anche quello, Tiziano».
«No e sei un’illusa se pensi che io ti potrò amare come amavo tua madre» l’aveva trovata anche lui la cosa peggiore che poteva dirle, il vero tallone d’Achille di Giulia, il luogo in cui ferirla mortalmente. Lo capì subito che era troppo, lui non era come lei, non poteva dirle certe cose. «Giulia, aspetta…».
La sentì piangere, dall’altra parte: «Mi fai schifo, sparisci» attaccò.

martedì 28 gennaio 2014

presentazione di Ludwig WIttgenstein

«Se il mio nome sopravviverà sarà solo come il terminus ad quem della grande filosofia occidentale. Un po’ come il nome di colui che ha bruciato la biblioteca di Alessandria»[1]. In tale modo, in una pagina di diario del 1930, Ludwig Wittgenstein pensava a se stesso e alla propria filosofia. Consapevole di avere avuto un ruolo essenzialmente distruttivo, critico e soprattutto – a suo avviso – finale nella storia del pensiero occidentale. Né tale ruolo meramente ‘negativo’ gli sembrava un rimpicciolimento dell’importanza della propria opera, poichè lo giudicava una propedeutica ad un nuovo pensare: «Da che cosa acquista importanza la nostra indagine, dal momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che é interessante, cioè grande e importante? (Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici, lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.) Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»[2].
Ciò che Wittgenstein auspicava, con la propria opera, era 1) sgomberare il campo dagli pseudo problemi che avevano avvilito il pensiero occidentale – essenzialmente problemi metafisici legati alla ricerca di un’essenza stabile ed occulta, sottostante il mondo fenomenico– causati da un fraintendimento del nostro linguaggio; 2) fornire un metodo che servisse da guida per evitare ulteriore confusione e per restituire l’uomo alla naturalezza ed immediatezza del mondo della vita.
In questo secondo aspetto, si coglie in contro luce la finalità etica della propria filosofia, sebbene di un’etica “paradossale” in quanto si risolve in un’agire che non può formalizzarsi in alcun canone o dettato morale, poiché tutta la filosofia di Ludwig Wittgenstein è segnata dalla convinzione che l’etica sia indicibile. Parlare di BeneBelloEssereAnima, ci ricondurrebbe in quel pantano di confusione e insensatezza linguistica che ha caratterizzato duemila anni di pensiero occidentale; Wittgenstein, invece, vuole che dopo la propria filosofia risulti impossibile porre gli interrogativi alla stessa maniera in cui si è sempre fatto: «i problemi vengono dissolti nel vero senso della parola - come una zolletta di zucchero nell’acqua»[3].
Abituati ad una filosofia sistematica, nella quale si costruisce, si integra, si accordano saperi e teorie, si innalza un edificio coerente ed esaustivo sul reale, l’idea deflattiva di filosofia proposta da Wittgenstein può apparire debole, quasi umile e priva di ambizione. Eppure, egli la considera la terapia per restituire all’uomo occidentale quella semplicità e quella “pace nei pensieri”, che proprio l’impulso velleitario di costruzione sistematica e di spiegazione omnicomprensiva gli aveva tolto. «Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta»[4], così nel Tractatus, con un motteggiare che ricorda da vicino la scrittura Zen, Wittgenstein rivendica il ruolo radicale del proprio pensiero: «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[5].
Nonostante nello spazio di poche pagine sia più efficace dare i tratti unificanti e coerenti dell’intero percorso wittgensteiniano, non è tuttavia possibile – a meno di  imperdonabili omissioni e conseguente travisamento – fornire del filosofo austriaco un ritratto privo di contraddizioni, che non tenga conto, cioè, della svolta che Wittgenstein ha impresso alla propria filosofia intorno agli anni  ’30. Tale svolta sta alla base della classica distinzione, presente in quasi tutta la storiografia filosofica che lo riguarda, fra il primo e il secondo Wittgenstein.
Con la dizione primo Wittgenstein, ci si riferisce essenzialmente al Tractatus logico-philosophicus, e ad alcuni piccoli scritti coevi (Alcune osservazioni sulla forma logica, Note sulla logica, Note dettate a G.E. Moore in Norvegia, Quaderni 1914-1916). In queste opere non solamente è palese la filiazione, sebbene polemica ed “eretica”, delle proprie problematiche dalla logica di Bertrand Russell (che scrisse l’introduzione all’opera) e di Gottlob Frege,  ma è ancora profonda la convinzione che sia possibile con un taglio netto recidere ciò che può dirsi chiaramente (il Logico) da ciò che non può dirsi affatto (il Mistico).  Nel Tractatus è ancora forte l’idea che sia possibile un linguaggio chiaro e senza sfumature, quello logico-matematico, che ci preservi dalle confusioni metafisiche e che riposi su una perfetta adaequatio tra nome e oggetto. L’ontologia del Tractatus logico-philosophicus, sebbene in modo già controverso, è una sorta di paradossale “atomismo organicista”, in cui è postulata l’esistenza del Semplice, dell’elemento singolo che compone la realtà e, in modo speculare, il linguaggio.  Sebbene il titolo del libro sia un lampante richiamo a Spinoza (il Tractatus ethico-politicus), Wittgenstein non accetta da Spinoza l’idea che il linguaggio more geometrico possa essere applicato anche all’etica. Quest’ultima rientra, insieme all’estetica e alla credenza religiosa, nell’insondabile sfera del Mistico, di ciò che si mostra ma che non si può dire. «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha che fare - , e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro - egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia - , eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto»[6]. Andando contro l’idea tradizionale che la filosofia sia quella scienza che fornisce, se non le risposte, almeno le domande fondamentali all’uomo, Wittgenstein ritiene invece che il fine della filosofia sia la cessazione di ogni domanda. In una fondamentale quanto vitatissima lettera all’amico von Ficker, Wittgenstein presenta così il Tractatus logico-philosophicus: «il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante. Ad opera del mio libro, l’etico viene delimitato, per così dire, dall’interno; e sono convinto che l’etico è da delimitare rigorosamente solo[7] in questo modo. In breve credo che: tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne»[8]. La filosofia non costruisce più sul terreno della metafisica e dell’etica cattedrali sistematiche, ma innalza dei muri che impediscono all’uomo di entrarvi maldestramente con la sua logica totalmente inadeguata, atta a descrive il come e non a spiegare il cosa. Il primo Wittgenstein paragona il proprio metodo filosofico ad una scala: «Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettare la scala, dopo esservi salito). Egli deve superare[9] queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo»[10].
La filosofia è un metodo che ci porta a qualcosa (una scala) non un’ontologia o una dottrina su qualcosa. Date queste premesse, la prima fase del percorso wittgensteiniano, si conclude con la celebre frase: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»[11]. Occorre tenere presente, altrimenti si cade in un’interpretazione di mistica tradizionale, che la negazione del linguaggio ha in Wittgenstein un valore positivo: il silenzio delimitando il dicibile, rende possibile il linguaggio.
Questo silenzio non fu solo teorizzato. Dal 1921 in poi, anno di pubblicazione dell’opera, Wittgenstein smetterà di fare filosofia, facendo prima l’architetto, poi il maestro elementare e  perfino il giardiniere, immergendosi, cioè, in quella vita, che sarà la cifra del suo secondo filosofare.
Nella proposizione 107 delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein fornisce spiegazione al silenzio  cui conduceva il metodo della sua prima opera, mettendo in evidenza che quel tacere, quella fine del filosofare, non erano un incidente di percorso del Tractatus, ma erano la conseguenza coerente e non aggirabile di quanto l’opera aveva teorizzato (molti interpreti, i primi dei quali Russell e i circolisti, avevano pensato alla chiusa mistica, come una deviazione dalla purezza del Tractatus, non scorgendovi, invece, il necessario esito): «Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l’attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!»[12]. L’esperienza didattica nella scuola elementare, forse ancor più che le altre esperienze extra-filosofiche, lo mise a contatto con il problema reale – e non più formale – dell’acquisizione del linguaggio e del significato delle parole. Ancor prima di approdare alla stesura finale delle Ricerche filosofiche[13], Wittgenstein farà sedimentare la sua filosofia matura in scritti quali Libro bluLibro marroneGrammatica filosofica, in cui il problema del significato di una parola assume un carattere centrale e il problema del linguaggio si sposta in modo sempre più marcato, da uno spazio privato e mentale ad uno pubblico e intersoggettivo. Si potrebbe tergiversare a lungo per spiegare in che modo questo scarto si sia verificato, ma basta affidarsi a questa frase «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio»[14]. Questa frase, benché possa apparire a chi non si occupa di filosofia del linguaggio quasi banale, segna invece il definitivo distacco di Wittgenstein dall’influenza di Gottlob Frege, che aveva dato una celebre definizione del significato attraverso il cosiddetto triangolo (poi ripreso da Ogden e Richards) segno-senso-significato[15], nel quale il senso è il contenuto cognitivo del nome e il significato è l’oggetto corrispondente al nome. Tale distinzione oltre ad essere quanto mai problematica, demandava ad uno spazio intimo, mentale la comprensione del linguaggio. Ad ogni nome corrispondeva una rappresentazione; il problema fregeano era stato quello di cercare un senso oggettivo, laddove le rappresentazioni non potevano che essere soggettive. Quando dice che il significato è l’uso che noi facciamo di una parola, Wittgenstein trasferisce il significato dal luogo arcano della mente a quello plurale dell’azione. L’uso di una parola è da sempre un uso plurale in quanto chi parla un linguaggio lo fa in un contesto pubblico. Il soggetto che usa il linguaggio non è un soggetto disincarnato, non è il cogito cartesiano né l’Io puro di Kant, ma è un essere sociale, in quanto l’uso rimanda ad un contesto di attività e consuetudini sociali. Senza la dimensione della prassi il linguaggio non sarebbe perfetto, sarebbe morto: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? – Nell’uso, esso vive. Ha in sé l’alito vitale? – O l’uso è il suo respiro?»[16]. E ancora: «Il segno (l’enunciato) riceve la propria significanza, il proprio significato, dal sistema di segni, dal linguaggio cui appartiene. In breve: comprendere un enunciato significa comprendere un linguaggio. È come parte del sistema di linguaggio che l’enunciato ha vita. Ma v’è la tentazione d’immaginare che ciò che dà vita all’enunciato sia qualcosa, in una sfera misteriosa, che accompagni l’enunciato. Ma qualunque cosa accompagni l’enunciato non sarebbe per noi che un segno ulteriore, un altro segno»[17]. Siamo così passati da una concezione atomistica ad una olistica del linguaggio. Wittgenstein usa spesso la metafora degli scacchi: come in una scacchiera, il re significa solo in rapporto ad un complesso sistema di regole, solo in rapporto ai pedoni, alla regina, ecc… Da solo non significa nulla. Ai tempi del Tractatus, Witttgenstein ricercava l’essenza del linguaggio sotto la superficie del linguaggio quotidiano, dagli anni ’30 in poi arrivò alla conclusione che non bisognasse cercare al di sotto della superficie, ma che era necessario guardare con sguardo nuovo alla superficie stessa.
Tale sguardo nuovo è tipico di tutta la filosofia post-Tractatus ed è volto alla distruzione di quella che Gargani chiama la «logica del doppio», orma di cartesianesimo, che ci spinge a credere che il linguaggio per funzionare abbia bisogno di un duplicato mentale, di un regno nascosto in cui i segni morti vengono vivificati, che vi sia una differenza tra il fenomeno e il reale: «Il fenomeno non è sintomo di qualcos’altro: è la realtà» scrive Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche[18]. Le parole non sono fenomeni dei pensieri, ma i pensieri esistono solo in quanto parole. Liberandoci dall’idea che il pensiero sia un processo occulto e solipsistico, malattia inoculata dal cartesianesimo, riconduciamo il linguaggio dai recessi interiori della coscienza alla sua base sensibile e sociale.  Il significato non è più oggetto di rappresentazione o intuizione, ma di una decisione, attuata nella prassi pubblica di una società. Siamo arrivati a quella svolta che è il passaggio dall’ «io» al «noi»[19], le parole infatti «hanno significato soltanto nel flusso della vita»[20].
Questa svolta wittgensteiniana presuppone l’abbandono dell’idea di essenza tanto in ambito linguistico, quanto in ambito concettuale (sebbene sia esplicito che in Wittgenstein questi due piani vengono definitivamente a coincidere). L’abbandono dell’essenza, ossia dell’universale quale quid unificante delle differenze, porta Wittgenstein ad elaborare due delle sue più celebri teorie: quella del gioco e quella delle somiglianze di famiglie.
Perché l’idea di gioco? Per vari motivi, ma anche perché ci consente di comprendere che così come noi chiamiamo gioco una serie di pratiche che non hanno un’essenza in comune fra loro – il calcio, gli scacchi, il bridge – allo stesso modo possiamo mettere sotto uno stesso termine, vari concetti, che però non vanno considerati come accidenti di un’unica sostanza.
Il gioco del calcio, del basket, del golf sono imparentati dall’utilizzare una palla, la dama e gli scacchi da una scacchiera, la canasta,il bridge e il solitario dalle carte, e via dicendo.[21] Non è più possibile rappresentare queste differenze sotto forma di albero, poiché esse costituiscono «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda»[22].
Non è possibile tracciare un confine fra un termine e l’altro, poiché tale confine non esiste. Wittgenstein le chiama somiglianze di famiglia: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l’espressione “somiglianze di famiglia”; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò: i giuochi formano una famiglia »[23]. Wittgenstein pone la sua teoria delle somiglianze di famiglia e il suo ideale di filosofia come scienza descrittiva, nel solco del “principio della forma” e non del “principio della legge”. La legge e il paradigma sono l’irrigidimento della forma di vita, rappresentano una fissità che segue all’evoluzione e vengono dopo la naturalezza della vita. «Im Anfang war die Tat», questa frase del Faust amatissima da Wittgenstein, indica l’antecedenza della pratica sulla teoria, della vita sulla conoscenza; la forma di vita è, per Wittgenstein, l’Urphänomen, - citando un altro autore amatissimo dal filosofo, Goethe - l’origine non determinante da cui tutte le formazioni storiche traggono spunto.
Ma il concetto di gioco rimanda anche a quello di regola ed è questo concetto che segna il divario tra la posizione di Wittgenstein e l’ermeneutica: seguire una regola non è interpretarla, questo ritornello dovrebbe essere ripetuto fino alla nausea per comprendere la distanza tra le due posizioni, e la differente concezione di soggetto sottostante le due filosofie. Il bisogno di interpretare un linguaggio può nascere solo in colui che si trova fuori da quel gioco linguistico, non da chi è un suo attore: quando ci sentiamo a nostro agio in un gioco linguistico (in una Weltbild) non interpretiamo ma agiamo: «un’interpretazione è buona non quando non siamo in grado di interpretare ulteriormente ma quando non lo facciamo e non avvertiamo il bisogno di farlo»[24].
L’interpretazione urta, ad un certo punto, con le regole; se l’interpretazione è individuale, la regola non può che essere sociale. Wittgenstein ha decostruito il mito del ‘privato’, proprio per rivendicare il fatto che ogni uomo è agito da un’immagine del mondo ‘plurale’, tradizionale e sociale, che il suo comportamento è dettato da regole collettive: «Ciò che chiamiamo “seguire una regola” è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? (…) Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. (…) Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)»[25].
Sostituendo al concetto di legge quello di regola, Wittgenstein mette in luce non solo il carattere convenzionale di quest’ultima ma l’interazione tra le regole, che è sottesa al concetto di gioco. Ogni regola ha un significato solo all’interno di un gioco e solo in relazione alle altre regole; non solo: «Make up the rules as we go along»[26], «facciamo le regole giocando», quindi può accadere che - l’esempio è di Wittgenstein – un giocatore di scacchi decida di prendere un pezzo e muoverlo oltre la scacchiera, metterlo in tasca, ecc.. Questa non è un’interpretazione delle regole del gioco degli scacchi, ma l’istituzione di una nuova regola, oppure un errore. Sarà un errore qualora nessuno userà l’eccezione da me creata, oppure  l’istituzione di una nuova regola, qualora molte persone decidano che mangiare la regina, significa mettersela in tasca. È come la morfologia di Goethe: vi sono le leggi, le variazioni e le devianze. Una variazione può divenire legge, una malformità della pianta può divenire la sua nuova costituzione. Nessuna regola può arginare in eterno la produttività della natura o della storia.
Anche l’influenza di Wittgenstein sulla cultura occidentale ha conosciuto due fasi. I wittgensteiniani di “prima” generazione furono quelli direttamente influenzati dal Tractatus logico-philosophicus : Carnap, Schlick, Waismann

[1] L. Wittgenstein, Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937, tr. di M. Ranchetti e F. Tognina, Quodlibet, Macerata 1999, p. 38.
[2] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 118.
[3] L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, tr. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, pag. 49.
[4] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1989, 6.53.
[5] Ibidem.
[6] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.53.
[7] La parola solo è sottolineata nel manoscritto due volte.
[8] L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig  von Ficker, a cura di G. H. von Wright, tr. di D. Antiseri, Armando, Roma 1974, pag.72.
[9] La traduzione di questa citazione è mia. Amedeo G. Conte traduce überwinden con trascendere; Wittgenstein non ci invita a trascendere le sue proposizioni, ma a superarle come si fa con una malattia; überwinden significa anche “vincere”, “avere la meglio”, e implica lo sforzo e la difficoltà connessi al superamento della cosa. La prima traduzione italiana del Tractatus logico-philosophicus di G.C.M. Colombo, utilizzava il termine ‘superare’ per rendere überwinden. Cfr. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, tr. di G.C.M. Colombo, Fratelli Bocca editore, Milano 1954, pag 285.
[10] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit., 6.54.
[11] Ivi, 7.
[12] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. di M. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1995, § 107.
[13] Occorre ricordare che ad eccezione del Tractatus logico-philosophicus, nessuna opera verrà più pubblicata da Wittgenstein e che tutte i suoi testi  sono  dattiloscritti dettati agli alunni oppure appunti delle sue lezioni.
[14] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 138.
[15] Si confronti G. Frege, Senso e significato, in Senso, funzione e concetto, a cura di C. Penco ed E. Picardi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 32-57.
[16] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 432.
[17] L. Wittgenstein, Libro blu, cit.,  pag, 11.
[18] L. WIttgenstein, Osservazioni filosofiche, p. 238.
[19]Cfr. B. Williams, Wittgenstein e l’idealismo, in AA.VV., Capire Wittgenstein, a cura di M. Andronico, D. Marconi, C. Penco, Marietti, Genova 1996, pag. 278.
[20] L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., pag. 497.
[21] Cfr.- L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 66.
[22] Ibidem.
[23] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 67.
[24] J. Buoveresse, Wittgenstein antropologo, cit., pag. 73. Cfr. anche L. Wittgenstein, Zettel, tr. It. M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 234: «Ciò che avviene non è che questo simbolo non può più essere interpretato, bensì: io non interpreto. Non interpreto perché mi sento a mio agio nell’imagine presente».
[25] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 199.
[26] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 83.